Le radici culturali del problema dei libri di testo
di Piero Mainardi
Un convegno concepito e preparato molto prima che la polemica montasse e che si è svolto in un momento in cui i riflettori dei media hanno deciso di spostarsi su altri settori; e dunque, anche per queste ragioni, un convegno caratterizzato da una logica propria e da una razionalità che contraddistingue positivamente il lavoro svolto da queste due associazioni capaci di andare oltre i clamori della cronaca.
Infatti dopo aver centrato negli anni precedenti l’attenzione sul problema della libertà di pubblicazione e di scelta del testo scolastico, sulla storia del Novecento e sul rapporto tra omologazione culturale e libro di testo, possiamo dire che quest’ultimo convegno dedicato al rapporto tra testo scolastico e verità (Quid est veritas? Verità cultura, testo scolastico era il titolo del Convegno) rappresenta un po’ la chiusura del cerchio rispetto ai grandi temi civili e culturali che la questione dei libri di testo pone.
L’assenza, giustificata da impegni di governo, del ministro Tullio De Mauro non ha reso il convegno monocorde: l’intervento di Miria Pericolosi, del Coordinamento Genitori Democratici, di taglio decisamente opposto rispetto all’orientamento dei promotori del convegno (si pensi all’affermazione della necessità di “evitare una sorta di clonazione spirituale da parte dei genitori sui figli”) e quello più tecnico, ma estremamente interessante e articolato, di Ethel Porzio Serravalle, in rappresentanza dell’Associazione Italiana Editori (AIE) hanno dato modo ai convegnisti di ricordarsi della complessità dei termini della questione, nonché della (drammatica) diversità di prospettive culturali ed educative presenti nella società italiana.
Nell’impossibilità di dare conto di tutti i numerosi e qualificati interventi (rimandando per ciò alla pubblicazione degli Atti) sono da segnalare, per la loro particolare pregnanza e perché sembrano svelare quali siano i veri termini del problema e le vere radici della questione dei libri di testo, le relazioni di monsignor Antonio Livi, ordinario di Filosofia della conoscenza alla Università Lateranense e di Andrea Caspani, docente di storia e direttore della rivista LineaTempo.
Monsignor Livi ha mosso la sua riflessione partendo da quella che è stata la personale esperienza di studente. Ha ricordato un’insegnante che denigrava Manzoni e definiva “falso” il suo realismo perché includente la Provvidenza; un altro che distribuiva opuscoli di una setta buddista; un docente e famoso intellettuale comunista come Natalino Sapegno che riteneva di dover negare valore poetico alle cantiche dantesche del Purgatorio e del Paradiso perché impregnate di teologia, manuali filosofia nei quali si veniva indotti a ritenere superata la filosofia antica e medievale (quest’ultima talvolta anche saltata) dal pensiero moderno e contemporaneo.
Nasce da qui la sensibilità di monsignor Livi per il problema della verità in generale e del suo rapporto con i libri di testo in particolare; nasce dal confronto con un’impostazione culturale dominante, ieri come oggi, di tipo ideologico cioè di una teoria “non interessata a descrivere e interpretare la realtà, ma a giustificare una prassi già decisa” che ha a cuore solamente “l’argomentazione dialettica in vista della manipolazione delle coscienze”.
L’ideologismo marxista è parzialmente venuto meno ed ha lasciato spazio alle varie forme ideologiche neoilluministiche che propugnano anche attraverso i libri di testo una mentalità ispirata al pragmatismo scettico che insidia le coscienze dei giovani. Ecco quindi la necessità della battaglia per la verità nei libri di testo che è conseguenza anche di un recupero di una corretta epistemologia in campo filosofico che restituisca all’uomo la consapevolezza (e il metodo o atteggiamento idoneo) della possibilità di attingere la verità delle cose, intesa tomisticamente come adaequatio intellectus et rei.
Caspani ha invece riportato l’attenzione sul problema della storia. In realtà, ha spiegato Caspani, il problema non è tanto un docente fazioso o un libro di testo fazioso, il problema fondamentale è come ci poniamo rispetto alla storia e che valore diamo all’insegnamento della storia. Citando storici di fama come Renzo De Felice, Paul Ricoeur, Henri Marrou, Cinzio Violante e March Bloch Caspani ha chiarito il significato della ricerca storica e le sue modalità.
Oggetto dello studio storico sono gli eventi umani verificatisi nel passato, i quali sono costituiti da un intreccio di fattori strutturali, passionali e casuali e già la presenze di questo terzo elemento sarebbe sufficiente per dimostrare l’impossibilità di chiudere il racconto storico entro categorie deterministiche, quindi ideologiche.
Se il corretto atteggiamento dello storico è quello di tentare di capire come e perché sono avvenute le cose, di ricostruire la realtà in modo tale da poterne comprendere le ragioni, il problema vero, allora, si pone quando la storia viene considerata per “fare uno studio attraverso il quale più che guardare le cose che si stanno studiando si guarda alle cose che sono venute dopo”.
Questo è l’atteggiamento di colui che, studiando il passato pretende di ricavarne un uso in funzione del presente o del futuro: è la storia ridotta ad uso di altro. Ed è la stessa logica che ha ispirato Berlinguer nel suo disegno teso dare centralità al Novecento: infatti tale scelta è stata giustificata con il (presunto) maggior interesse per il passato prossimo rispetto a quello remoto nonché con la “necessità” di comprendere le categorie politiche odierne.
Anche in questo caso la storia è ridotta “a strumento per fare altro”. Occorre liberare la storia da questa strumentalità (ideologica) ha ribadito Caspani, ma ciò non basta perché sul piano della didattica la storia sta subendo un nuovo attacco ideologico, peraltro attuato col pieno sostegno del ministero della pubblica istruzione, da cui esce snaturata e altrettanto mortificato è il suo insegnamento.
Infatti la didattica modulare rende impossibile studiare la storia come successione di eventi che di fatto abolisce e fa passare un immagine della storia insegnata non “come un sapere che permette di incontrare i fatti, gli eventi del passato umano, ma come una costruzione mentale, un insieme di procedimenti, di mappe mentali, concettuali, di operazioni metodologiche, sganciato dalla cronologia”.
Ed anche in questo caso la storia finisce per diventare “qualcos’altro”.