Avvenire Mercoledì 29 Agosto 2018
La medievista spagnola Elvira Roca Barea contro la pubblicistica antimperialista: «Al di là degli stereotipi, le grandio opere civili, gli scambi culturali o i periodi di crescita demografica sono stati spesso conseguenza delle espansioni imperiali»
di Leonardo Servadio
Ho sempre avuto il dubbio che vi fosse qualche assonanza tra le critiche mosse all’impero romano e a quello spagnolo, e lo interpretavo come conseguenza al malcontento dei poteri locali verso quelli globali. Poi, quando nel 2001 andai negli Stati Uniti, poco dopo l’attentato alle Torri Gemelle, notai anche lì un atteggiamento simile: di fronte all’attacco terroristico si levavano voci di autocritica. Mi resi conto che c’è una componente psicologica importante, un senso di colpa che attribuisco alla responsabilità che i popoli imperiali maturano verso coloro sui quali esercitano il loro influsso».
E così Elvira Roca Barea, storica medievista, docente a Malaga, decise di scrivere Imperiofobia y Leyenda Negra, libro che decisamente si scosta dalla pubblicistica antimperialista dominante che da quando due anni fa è uscito Spagna ha riscontrato un enorme successo (ma ha anche ricevuto critiche).
«Tutti parlano male degli imperi, ma in realtà le grandi opere civili e gli scambi culturali spesso sono portati avanti proprio da questi. I periodi di crescita demografica, lo si vede nella storia, sono conseguenti alle espansioni imperiali. Eppure tutti gli imperi hanno la loro “leggenda nera”. Questa per la Spagna ha dato luogo a una cultura che non solo dura tuttora ma è diffusa anche da noi. E da questa deriva anche lo stereotipo dei popoli del nord migliori, più precisi, lavoratori, onesti, ecc., mentre noi del sud saremmo indolenti, poco affidabili, truffaldini, ecc.».
Ma ora siamo in un’epoca di globalizzazione, che deriva in gran parte dall’impero britannico…
«Anche questa è una visione preconcetta. La prima globalizzazione avvenne con l’impero ispanico. Fu Magellano il primo a circumnavigare il globo e ad aprire nuove rotte commerciali con l’Asia. Dopo di che si stabilì quel che è noto come il “galeone di Manila”, il regolare servizio marittimo tra le Filippine e il Centro America attraverso il Pacifico, che durò fin quando il Messico non si rese indipendente. Da quella rotta giunsero in Europa molte mercanzie nuove come, per dire, i ventagli o i coralli. Era l’epoca di Filippo II».
E delle guerre di religione…
«A causa delle quali si affermò la cattiva fama non solo di noi spagnoli, ma di tutti i popoli del sud. Max Weber, per esempio, senza alcun ritegno parla di voi italiani come di un popolo di incapaci, irrimediabilmente condannati al sottosviluppo. L’idea che il sud sia moralmente inferiore per lui è un assioma. È un pregiudizio radicato nelle culture nordiche, e fu diffuso proprio all’epoca delle guerre di religione. Perché queste furono condotte da principi centroeuropei contro l’impero spagnolo, che era considerato come l’espressione massima dei popoli del sud, nonché della loro religione».
Be’ ma scontri tra confinanti ci son sempre stati…
«Questa è un’altra faccenda. Le correnti protestanti diedero vita a una vera e propria teologia della superiorità morale nordica, perché il protestantesimo nasce come religione nazionale, non universale: di un preciso popolo, non di tutti i popoli. Non a caso fu a conseguenza delle guerre di religione che fu introdotto il principio “cuius regio eius religio”. La storiografia lo accetta come fondamento della sovranità nazionale, ma in realtà è la base sulla quale il mondo protestante afferma il controllo del potere politico sulla religione, che così diviene strumento di potere. Tuttora in Gran Bretagna il capo della chiesa è la regina; in Danimarca la situazione è simile; in Norvegia solo nel 1912 si previde che il re cessasse di essere capo della chiesa. E con le riforme protestanti vi furono ovunque appropriazioni dei beni della Chiesa Cattolica: a impinguare i patrimoni dei regnanti, non dei popoli».
«Sul piano ideologico i nazionalismi ne furono esasperati e, per conseguenza, il razzismo. In una mostra che ho organizzata recentemente a Madrid, Martin Lutero y su mundo (Espacio Miguel Delibes di Alcobendas, in autunno sarà a Malaga e a Siviglia) ho presentato diversi documenti dell’epoca che mostrano il volto razzista di Lutero. L’autore delle 95 tesi avrebbe voluto bruciare tutte le sinagoghe: lo scrive in Degli Ebrei e delle loro menzogne (1543). Tanto che i nazisti usarono la sua effigie in un loro manifesto».
«Il nazionalismo spinto porta sempre a guardare all’altro come a un nemico da sopprimere; Lutero e i vari movimenti protestanti andarono in questa direzione e il loro cavallo di battaglia fu una propaganda violenta e mirata contro i cattolici. Al tempo della Riforma distribuirono circa 3 mila diversi volantini contro i cattolici, che risposero solo con 280 pubblicazioni. Nei primi si usava l’insulto, con vignette in cui Lutero era ritratto nell’atto di defecare sul papa; nelle seconde invece si argomentava pacatamente»
Il mondo cattolico non si difendeva?
«I protestanti dovevano affermarsi togliendo aria ai cattolici. La Chiesa cattolica invece si limitava a riaffermare le proprie idee».
Parlando di propaganda, nel suo libro dice che fu Hearst, il magnate della stampa, che organizzò la guerra statunitense contro Cuba, l’ultimo territorio spagnolo di oltremare…
«Gli statunitensi non volevano quella guerra. Ci fu un incidente navale e la campagna di stampa lo fece passare per un attacco spagnolo. Alcuni decenni prima gli Stati Uniti con grande facilità avevano invaso il Messico, rimasto disorganizzato dopo l’indipendenza, e tra il 1846 e il 1948 avevano conquistato il 52 percento del suo territorio. Poi imposero la legge del silenzio: il mondo ispanico era inesistente. È significativo che un giornalista, Charles E Lummis, compiendo un viaggio a cavallo da Cincinnati a Los Angeles nel 1884 scoprì con sua grande sorpresa che le popolazioni incontrate lungo il cammino parlavano spagnolo, non inglese. Ed erano civili. Divenne un difensore loro e degli indigeni amerindi».
Ma ora queste differenze sono finite…
«Recentemente negli Usa hanno rivalutato la figura di Bernardo de Galvez, che contribuì non poco alla rivoluzione americana. E’ un riconoscimento dovuto al fatto che la popolazione ispanica lì è sempre più numerosa, tante che ci si può vivere parlando solo spagnolo. È la forza della demografia. Le popolazioni cattoliche sono cresciute e l’America Latina è il continente dove maggiore è la loro percentuale. E pensare che la Spagna non è mai stata un paese popoloso: ma gli spagnoli non distruggevano gli indigeni, bensì si mescolavano coi loro, formavano famiglie. Per questo in America latina è diffuso il meticciato, a differenza dell’America del nord. Ma noi meridionali continuiamo a essere guarda dall’alto in basso. L’acronimo Pigs (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) con cui siamo bollati, è molto eloquente».