Corriere della Sera 8 febbraio 2005
Una trentina di deputati popolari: fu come il nazismo. Si allarga il gruppo dei deputati europei «popolari» che chiede di mettere sullo stesso piano e di vietare i simboli del nazismo e quelli del comunismo: «Non ci possono essere due pesi e due misure». Dopo la proposta di Frattini di proibire le svastiche in Europa
di Giuseppe Sarcina
BRUXELLES – Polacchi, cechi, slovacchi, estoni, lettoni. Si allarga nell’Europarlamento il gruppo dei deputati «popolari» che appoggia l’equazione «nazismo uguale comunismo». Nei giorni scorsi l’ex presidente lituano, Vytautas Landsbergis e l’ungherese Joszef Szajer, avevano sollecitato le delegazioni del Ppe a sostenere la lettera inviata al vice presidente della Commissione, Franco Frattini. In quel documento i due europarlamentari chiedevano al titolare del portafoglio «Giustizia, Libertà e Sicurezza» di mettere sullo stesso piano i simboli del nazismo e quelli del comunismo.
Szajer, al telefono da Budapest, chiarisce la posizione: «Non siamo noi che abbiamo preso l’iniziativa di mettere al bando la svastica. E’ il vice presidente Frattini che ha intenzione di proporlo al Consiglio dei ministri. Ebbene noi diciamo questo: se, ripeto se, si decide di proibire i simboli del nazismo, allora bisogna fare la stessa cosa con quelli del comunismo. Non ci possono essere due pesi e due misure. Non si può distinguere tra le vittime dell’uno o dell’altro regime». Su questa impostazione si ritrovano circa 20-30 parlamentari del Ppe, che fanno capo alle delegazioni di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, oltre che, naturalmente Ungheria e Lituania. Frattini aveva preso l’iniziativa «anti-svastica» a metà gennaio, alla vigilia del sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. La decisione-quadro sul nazismo potrebbe essere discussa già il 24 febbraio nel Consiglio dei 25 ministri della Giustizia e dell’Interno.
Il vice presidente della Commissione «auspica», però, anche un dibattito-riflessione nell’Europarlamento sul comunismo. Il confronto, se ci sarà, si annuncia piuttosto movimentato. Già nei giorni scorsi, per esempio, l’europarlamentare Marco Rizzo, dei «comunisti italiani», aveva respinto quasi come una provocazione l’idea di equiparare la svastica alla falce e martello. E in effetti storici e politici della «Vecchia Europa» hanno sottolineato in questi giorni il contributo che i partiti comunisti occidentali diedero alla Resistenza e alla costruzione stessa delle democrazie occidentali. Obiezioni, però, respinte dal blocco dei popolari dell’Est. Ancora l’ungherese Szajer osserva: «Anche da noi i partiti comunisti parteciparono alla lotta contro il nazismo. Poi, però, costituirono delle dittature. E i partiti comunisti occidentali hanno comunque appoggiato per lungo tempo l’Unione sovietica. Oggi la discussione è sui simboli. In Ungheria, all’inizio degli anni Novanta, sono stati messi al bando sia quelli nazisti che quelli comunisti. Le stelle rosse, anche se stampate su un’innocente t-shirt, dalle nostre parti suscitano ricordi orribili».
«La vostra voce non resterà inascoltata Ora siamo liberi di giudicare il passato»
Franco Frattini
(*Vicepresidente della Commissione europea,
responsabile per la Giustizia, la Libertà e la Sicurezza)
La vostra storia è la nostra storia. Ora che la discussione su razzismo e antisemitismo si riapre in seno alle istituzioni europee – anzitutto i 60 anni della liberazione di Auschwitz l’hanno sollecitata – l’Europa si accorge dei suoi larghi confini. Adenauer, Schumann e De Gasperi avevano saputo gettare, a guerra finita, il cuore di quella prima «piccola Europa» oltre l’ostacolo di un conflitto tremendo, che ci aveva divisi nel solco tracciato dal totalitarismo nazista. La potenza sovietica – rotto il patto scellerato con Hitler – aveva marciato accanto alle democrazie d’Occidente contribuendo a vincere la guerra. Non solo: un ideale di giustizia aveva animato le menti ed i cuori di uomini e donne facendoli combattere anche nel mio Paese, in nome del comunismo, per la libertà. E’ questa la storia che – rispetto all’oggi – una parte d’Europa conobbe e ancora celebra. Senza certo dimenticare che dobbiamo per larga parte la nostra libertà alla nascita ed al consolidamento di una relazione transatlantica con gli Stati Uniti, durante e ancor più dopo il secondo conflitto mondiale.
Ma è giusto dire – non per dividere, semmai per spiegare – che molti protagonisti di questo racconto hanno per molti anni preferito le ragioni della storia, e del «fatto storico» della vittoria sul nazismo, con le sue anche necessarie semplificazioni. E che non subito e non a tutti apparvero chiari i contorni del totalitarismo sovietico: pensiamo a quanti intellettuali europei furono conquistati dal movimento per la pace, perfino sir Bertrand Russell.
Pochi avevano voglia di dar credito a quella che allora appariva come la denuncia e l’ansia di pochi ricercatori e studiosi. Basti pensare anche alla vicenda italiana delle foibe, censurata e sacrificata dapprima sull’altare delle buone relazioni con la Jugoslavia del maresciallo Tito e poi per preservare l’integrità di immagine del movimento comunista italiano.
Una donna coraggiosa, un’intellettuale ebrea – Hannah Arendt – rappresentò, tra i primi, quella che ancora si ritiene una scandalosa equazione: nazismo e stalinismo, scandalosa perché appunto, secondo alcuni, non terrebbe conto delle differenze specifiche e dei loro contenuti ideologici; disegnò comunque una solida analogia tra la struttura dei due regimi, entrambi considerati vere e proprie macchine del terrore e della propaganda.
Nazismo e comunismo staliniano avevano stabilito di escludere da ogni possibile appartenenza al loro movimento di morte la razza (gli ebrei) o la classe (i borghesi), programmandone lo sterminio. Le leggi della storia, per il comunismo sovietico, decretano la rovina delle classi o dei loro rappresentanti; le leggi della natura, per l’ideologia nazista, sterminano tutti quegli elementi non ritenuti in ogni caso vitali.
Tanto l’ortodossia intellettuale degli studiosi marxisti quanto l’ansia dei sostenitori dell’incomparabilità della Shoah hanno combattuto questo confronto, giocato peraltro dalla Arendt nel 1951, con uno straordinario talento, se si confrontano le fonti storiche allora disponibili: moltissimo si conosceva di Hitler, a sei anni della sua disfatta, e degli archivi nazisti; pochissimo di Stalin, che morirà due anni dopo. E poco ancora sapremo di lui e del terrore comunista fino agli anni ’90 del secolo scorso.
L’Europa di oggi si è ricongiunta con Paesi e popoli che molto hanno conosciuto, purtroppo, di quel secondo totalitarismo e dei suoi orrori. La loro storia è la nostra storia. Il dolore di ognuno di loro deve essere il dolore di tutti. E l’Europa di oggi è una e libera, anche e proprio perché si è liberata dei due grandi totalitarismi del XX secolo, diversi nella genesi e nella storia, uguali nell’aver ucciso persone assolutamente innocenti, considerate «nemici oggettivi».
Le ragioni di molti studiosi – ma anche dell’etica – si trovano ora accanto un analogo valore di contesto, di dolorosa esperienza e, non dimentichiamolo, di vittoriosa liberazione: quello stesso valore in nome del quale la «piccola Europa» ha rifiutato l’analogia strutturale tracciata ne Le origini del totalitarismo – tra nazismo e comunismo -, in favore appunto della diversità storica.
Possiamo e dobbiamo oggi continuare a rispettare le ragioni degli storici, le loro differenti analisi, il loro confronto anche aspro. Ma siamo finalmente tutti insieme, ad ovest come ad est, parte di una stessa storia e liberi di giudicare il nostro passato, come un passato comune, senza infingimenti e senza ammiccamenti.
Per questi motivi penso che l’appello di Jozsef Szaier e di Vytautas Landsbergis non possa e non debba rimanere inascoltato e sono pronto e deciso a contribuirvi, nel rispetto delle mie competenze, nell’ambito delle istituzioni europee.
Penso ad un grande dibattito europeo, pubblico e trasparente, come è doveroso fare nell’Europa che stiamo costruendo sulla nuova Costituzione per gli Stati e per i popoli.