di Massimo Introvigne
Sabato 15 giugno si sono aperte a Roma le manifestazioni per la «Giornata dell’Evangelium Vitae». In attesa della Messa del Papa di domenica, la giornata di sabato ha offerto numerosi momenti di preghiera e di penitenza – perché per i peccati contro la vita occorre anzitutto fare penitenza -, una catechesi in italiano del cardinale Camillo Ruini e un convegno in lingua inglese alla Pontificia Università Urbaniana aperto dal cardinale americano Raymond Leo Burke.
Ma il cardinale Burke è andato oltre, chiedendosi: perché queste campagne hanno successo? Dopo tutto, per quanto denaro si spenda, si tratta di vendere la morte, il che non dovrebbe poi essere così facile. Citando il beato Giovanni Paolo II (1920-2005), il porporato americano ha suggerito che la cultura della morte vince non solo per l’aggressività dei nemici della verità naturale e cristiana ma anche per la confusione dottrinale che regna tra le fila dei cattolici. «La nuova Bussola Quotidiana» documenta questa confusione tutti i giorni. Il cardinale ha ragione: ci sono tanti cattolici – compreso qualche vescovo – che tradiscono il Catechismo e il Magistero con sconcertanti aperture su anticoncezionali, aborto, eutanasia e unioni omosessuali. E ha fatto molto bene Burke ha ricordare come tutto è cominciato nel 1968 con la contestazione di tanti teologi contro l’enciclica «Humanae vitae» del servo di Dio Paolo VI (1897-1978). Quella degli anticoncezionali, ha detto Burke, non è una questione secondaria: il cattolico che cede sugli anticoncezionali è già pronto a cedere su tutto il resto.
Appena accennato nel discorso di Burke è un secondo punto, che a me sembra decisivo. La cultura della morte vince non solo perché un certo numero di cattolici tradisce la verità sul terreno della morale. Vince perché milioni di cattolici, che sul piano dottrinale si dicono fedeli al Catechismo, sul piano della teologia e della visione della storia, quindi sul piano psicologico, sono stati fatti prigionieri dalla dittatura del relativismo. Il problema, su cui dobbiamo molto riflettere, è che tantissimi cattolici accettano, silenziosamente, la tesi della presunta «irreversibilità» delle «conquiste» rivoluzionarie. Pensano che «non si possa più tornare indietro» perché certi processi sono irreversibili. Questa idea della irreversibilità ha convinto non solo teologi e vescovi progressisti ma anche tanti conservatori, tanti dirigenti cattolici e sacerdoti che non negano le verità morali del Catechismo.
Si sono convinti che la storia avanzi in modo lineare, che la rivoluzione contro la castità, l’aborto, il matrimonio omosessuale, l’eutanasia – domani l’«aborto post-natale» cioè l’infanticidio, l’assassinio dopo la nascita dei bambini malati e indesiderati, la prossima frontiera della cultura della morte, della cui sinistra avanzata ha fatto stato all’Urbaniana il filosofo Francis Beckwith – sia il risultato di processi «irreversibili». Si pensa che il treno sia partito e avanzi in modo lineare. Al massimo – com’è accaduto negli anni scorsi in Italia sul tema delle unioni omosessuali – il treno può essere fermato in stazione per un po’, ma poi inesorabilmente riprende la sua marcia.
Anche molti «buoni» che si oppongono al matrimonio omosessuale e ad altri frutti della cultura della morte sono convinti di stare combattendo una battaglia di retroguardia, di battersi per onore di firma, ma senza possibilità di vincere, perché il «senso della storia» è un altro. Tutti sono – in una certa misura, tutti siamo – vittima del mito del progresso e dell’idea illuminista della storia lineare, i quali sono pilastri della visione del mondo relativista per cui la verità non è mai assoluta ma è sempre figlia del tempo. O ci liberiamo di questa superstizione, che la dittatura del relativismo ci martella nella testa e nel cuore tutti i giorni dell’anno, o la battaglia per la vita e la famiglia è già finita, l’abbiamo già persa e arriveranno dovunque i matrimoni omosessuali, l’eutanasia e alla fine anche l’«aborto post-natale».
Dobbiamo denunciare il fatto che quali elementi costituiscano il «progresso» non è di per sé evidente ed è deciso dai poteri forti, che poi impongono le loro decisioni a tutti. Rimontare sull’idea dei processi «irreversibili» è difficile, perché le battaglie perse si sono accumulate. Eppure la storia non ha nessun senso umano predeterminato e necessario, le battaglie le vincono e le perdono gli uomini, e per il cristiano nessuna vittoria del male è «irreversibile». Anche il nazismo e il comunismo sovietico sembravano invincibili e «irreversibili» ma sono caduti.
Ultimamente, credere che il male sia irreversibile e invincibile è parte di quella disperazione storica che, come ci insegna quasi tutti i giorni Papa Francesco, viene dal diavolo. Ma anche il diavolo non è invincibile, anzi è già sconfitto dal Signore Gesù. Di più: a rigore non esiste nessun senso della storia al di fuori della vittoria del Signore sul male, sulla morte e sul diavolo. Partecipare a questo unico vero senso della storia, a questa vittoria antica e sempre nuova del Signore, richiede però che ci liberiamo dalla superstizione del mito del progresso: una liberazione che possiamo conquistare solo nello studio, nella meditazione e nella preghiera.