di Massimo Introvigne
Emoziona l’uscita in Italia di Harry Potter e i doni della morte, il settimo e ultimo volume della saga del maghetto? Pochi, per la verità, sono riusciti a non leggere le recensioni dell’edizione inglese, e quindi a non sapere già come va a finire.
Da questa vecchia storia – verso cui attira la sua attenzione nel testamento Silente, l’amato maestro ucciso al termine del sesto volume – Harry Potter finisce per essere ossessionato, dedicando alla ricerca dei due ‘doni della morte’ che gli mancano forse più tempo di quanto dovrebbe, impegnato com’è – con gli amici Ron ed Hermione – nella lotta finale contro l’Oscuro Signore, Lord Voldemort.
Tre temi dominano i trentasei capitoli del romanzo. Il primo è quello degli oggetti magici: non solo i ‘regali della Morte’ ma le bacchette magiche – per molte delle oltre seicento pagine Voldemort gira il mondo, uccidendo e torturando, alla ricerca della bacchetta perfetta che gli permetterà di sconfiggere Harry – e gli ‘horcruxes’ dove l’Oscuro Signore ha disseminato frammenti della sua anima per assicurarsi l’immortalità e che Harry deve trovare e distruggere.
E tuttavia la lezione del libro è che non sono gli oggetti a vincere le battaglie fra il Bene e il Male, ma le persone: non esiste la bacchetta magica perfetta, ogni bacchetta vale soltanto quanto chi la usa. Il secondo tema – che la Rowling riprende ampiamente da Orwell – è la corruzione del potere: il ministero della Magia cade quasi senza lottare nelle mani di Voldemort e s’impegna prima a discriminare, poi ad arrestare e uccidere i maghi che non sono ‘di sangue puro’, non sono cioè nati da genitori maghi.
La metafora del nazismo e di altri totalitarismi è inequivocabile. E, poiché i maghi ‘purosangue’ inebriati di potere organizzano attentati anche contro gli inglesi che ignorano l’esistenza del mondo parallelo della magia, non manca neppure il riferimento al terrorismo.
Il terzo tema è il valore redentivo delle molte sofferenze che attendono Harry Potter, che qui, come altri eroi della cultura popolare, diventa una figura di salvatore pronto a morire per la salvezza degli altri. E fa da filo conduttore al romanzo una frase della Prima lettera ai Corinzi (15,26) che Harry trova su una pietra tombale in una vecchia abbazia: «L’ultimo nemico a essere sconfitto sarà la morte».
Senonché fra l’uscita dell’edizione inglese e quella dell’edizione italiana è successo qualche cosa di sgradevole. Gli spunti implicitamente cristiani sono stati notati da quasi tutti i critici, e il romanzo – per quanto alcuni ancora non si fidino – è stato promosso da autorevoli riviste cattoliche e protestanti.
Ma, ogni medaglia ha il suo rovescio, e la Rowling è stata attaccata dalla stampa laicista internazionale come vittima del complesso identitario che dopo l’11 settembre ha portato a riscoprire il cristianesimo anche scrittrici un tempo in fama sulfurea come Anne Rice, che oggi è passata da Intervista col vampiro ai libri devoti e si proclama «una scrittrice per Cristo». Se la Rice si è limitata a dire che comunque voterà Hillary Clinton, la Rowling si è davvero spaventata all’idea di essere esclusa dall’eletto consesso degli scrittori di moda, che devono essere per definizione irreligiosi e sostenitori del matrimonio dei gay.
Prima si è fatta applaudire a New York affermando che Silente, come se l’immagina la scrittrice, è un omosessuale (ma per fortuna il lettore non se ne accorge). Poi, dopo avere rimosso dalle sue biografie online il riferimento all’affiliazione religiosa riformata, si è messa a dichiarare agli intervistatori (anche in Italia) di sentirsi «attratta dall’assoluto» ma non cristiana, e convinta che «si possa vivere una vita buona e utile senza credere in Dio», mentre «credere in Dio non garantisce una vita morale».
Ripudiato anche Tolkien (troppo cattolico), un tempo riconosciuto come maestro, la Rowling potrà tranquillamente fare Capodanno con i colleghi della lobby degli scrittori liberal cui sono garantite buone recensioni dal New York Times e da Repubblica.
Una ragione per buttare via Harry Potter? Non necessariamente. Senza aspettare Umberto Eco, già il Medioevo conosceva la differenza fra intentio auctoris, le idee dell’autore, e intentio operis, quel che oggettivamente può trasmettere l’opera.
Un fior di anticlericale come Collodi ha creato con Pinocchio una storia suscettibile (ce lo insegna il cardinale Biffi) di un’interpretazione cristiana. Su Harry Potter il dibattito continua: ma il maghetto ormai appartiene più ai lettori che all’autrice. Chi lo apprezza, di fronte alle ultime discutibili esternazioni della scrittrice, ha tutto il diritto di rispondere: Viva Harry Potter, abbasso la Rowling.
(A.C. Valdera)