Intervista a monsignor Luigi Negri. “Combatto l’eugenetica hitleriana”
di Paolo Rodari
Per certi versi, assomiglia al “leone di Munster”, l’indimenticato monsignor Clemens August Von Galen, vescovo ai tempi del nazismo, che venne fatto cardinale da Pio XII pochi giorni prima della sua morte a motivo dell’indefessa passione per una fede incidente nella società. Quello stesso Von Galen che il 9 ottobre 2005, Benedetto XVI, concludendo la cerimonia della sua beatificazione, definì come il campione della fede «che non si riduce a sentimento privato» della fede che «non si nasconde» ma che implica «la testimonianza anche in ambito pubblico in favore dell’uomo, della giustizia e della verità».
Don Luigi Negri è questa fede che cerca di trasmettere nella sua diocesi e in Italia. Un paese dove, purtroppo «pure certi cattolici – racconta al Riformista – sono deboli, fino a riferirsi al Papa o in modo formale oppure addirittura apertamente contestandolo. Arrivano addirittura a interpretare le sue parole fuorviandole».
Il riferimento, ovviamente, è alle varie interpretazioni seguite alla lettera del Papa scritta a vescovi per spiegare la revoca della scomunica ai lefebvriani ma anche agli attacchi che da varie parti del mondo sono giunti addosso al Pontefice per la stessa revoca.
«Occorre più coraggio – dice Negri -. La chiesa spesso è debole perché si pensa che fede e vita debbano essere due sfere separate. Ma non è così. L’aveva capito bene pure Giovanni XXIII chevedeva in questa separazione la tragedia della Chiesa contemporanea».
Negri racconta che ai suoi preti lo dice sempre. Cosa? Che «nel centro commerciale che è l’immagine della nostra società la Chiesa è stata relegata ai piani alti dove distribuisce oggetti religiosi per quella realtà sempre più minoritaria che ha questo bisogno. Invece c’è un altro modo di vivere la fede: annunciare Dio dentro il mondo degli uomini».
Anche il vescovo, spiega Negri, ha questo compito primariamente: «Aiutare il popolo a vivere la fede sicché lo stesso popolo sia portatore della fede stessa. Al vescovo non spetta, come molti pensano, organizzare il dialogo con chi non è cristiano. Al vescovo compete la formazione del popolo il quale, poi, correttamente educato saprà dialogare con tutti.
Il vescovo, tanto per fare esempi concreti, non deve chiudere e aprire le moschee. È un problema delle istituzioni. Al vescovo tocca educare il popolo che gli è affidato. E, insieme, al popolo, difendere la fede, i suoi spazi di libertà, i segni della tradizione come sono il crocifisso, il presepe, lo spazio davanti alle cattedrali…».
E ancora: «Lo disse bene Benedetto XVI a Verona: la cultura del nostro popolo si è formata nell’incontro di tra fede e umanità italiana. Un incontro che oggi una parte della società vuole far fuori. La vicenda di Eluana Englaro è esemplare. È un segno tragico della crisi della nostra società. È uno scontro epocale tra quelle che Giovanni Paolo II definì la cultura della vita e cultura morte.
Si è sostenuta un’equivalenza tra vita e morte. Si è affermato che la morte è un valore. Non a caso è inquietante la parentela esistente tra la corrente filo eutanasica dei nostri tempi e la tesi fondamentalmente eugenetica hitleriana. Per la Chiesa la vita è indisponibile. Certo, una legge sul fine vita oggi è purtroppo necessaria, ma la scelta che occorre fare è tra il riconoscimento che la vita è sacra e indisponibile, e coloro che invece ritengono che la vita sia disponibile alla volontà del malato, della famiglia, della scienza o della magistratura».
(A.C. Valdera)