di Michelangelo Pelàez
Le verità fondamentali hanno bisogno di essere continuamente meditate perché non cessino di esercitare il loro influsso sulla nostra vita quotidiana. Una di queste verità, molto umana e perciò molto divina, è la necessità di esaminare l’andamento della nostra condotta di fronte al tempo che scorre incessantemente verso un traguardo, la morte, che fissa la nostra esistenza in un destino definitivo di nuova vita felice o di «seconda morte», cioè di dannazione eterna.
L’esame di coscienza può essere oggi la miglior arma contro quella visione individualistica della vita, senza obblighi, alla ricerca continua di «spazi del privato», di cui ha parlato Benedetto XVI nel suo viaggio in Croazia del giugno scorso.
Non un semplice bilancio
Più che un semplice bilancio del nostro «dare» e «avere», con l’esame di coscienza ci appropriamo del tempo che scorre in modo da impedire che ci sfugga di mano e perda di senso. Gli eventi passati, anche se recenti, conservano il loro significato e, purificati, possono essere sorgente positiva di altri eventi successivi.
In questo modo la pratica perseverante dell’esame contribuisce a ottenere quell’unità di vita, così fortemente raccomandata da san Josemarìa, tra i diversi momenti della giornata e tra molteplici circostanze che caratterizzano la nostra esistenza. «Esaminati […]. Non è vero che il tuo malumore e la tua tristezza senza motivi – apparentemente senza motivi — derivano dalla tua mancanza di decisione nel rompere i lacci sottili, ma “concreti”, che ti ha teso – accortamente, con palliativi – la tua concupiscenza?» (Cammino, n. 237).
Simone Weil mise in risalto come la nostra condotta sia frequentemente condizionata da ciò che chiamava il «meccanismo di separazione»; mediante un atto di volontà furtiva verso sé stessi, si separa una parte della realtà e si pone il male in luogo appartato, per esempio si cede al richiamo del piacere quando si rimanda di giorno in giorno il compimento di un obbligo, «separo l’obbligo e il passar del tempo»; oppure il grande industriale che gode di un illimitato benessere mentre i suoi operai giacciono in condizioni di vita difficili, pur avendo pietà di loro, non stabilisce un rapporto tra il suo stile di vita e la situazione in cui si trovano i suoi dipendenti.
L’esame di coscienza porta a una miglior conoscenza di sé stessi e di conseguenza alla nobile ambizione di realizzare nella propria vita ciò che si è, e questo senza sprecare energie né coltivare frustrazione perché non si è come qualcun altro. Si racconta di un giovane rabbino che si affannava, senza riuscirci, a essere migliore, finché l’anziano rabbino non lo richiama: «Quando ti presenterai davanti all’Eterno, l’Eterno non ti chiederà perché non sei stato Mosè. Ti chiederà perché non sei stato te stesso».
L’esame è un mezzo indispensabile per verifìcare il proprio atteggiamento nei riguardi di Dio, dal quale abbiamo ricevuto, e continuiamo a ricevere, doni e talenti in vista del compimento di una nostra specifica missione. Occorre domandarsi: che uso sto facendo della mia vita? È nel tempo, oggi, adesso, che Dio mi attende e mi incontra.
Contro l’ «iperadattamento»
Le numerose esortazioni di Gesù alla vigilanza sono una raccomandazione ad avere un costante spirito di esame che ci consenta di essere preparati al giudizio particolare che segue alla morte: «State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso» (Me 13, 33). San Paolo faceva eco al Vangelo con i Corinti: «Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Cor 13, 5).
Nell’esame di coscienza riconosciamo alla presenza di Dio le nostre personali miserie, accettiamo i nostri limiti (abbiamo ricevuto non cinque talenti, ma soltanto due) che limiti non sono, se riflettiamo sul compito specifico che a ognuno è dato da realizzare nella sua vita. Non caliamo il velo sulle nostre colpe, non ci perdiamo nel costruire un’immagine fittizia di noi stessi per catturare una comica e consolante stima da parte degli altri.
L’identità cristiana non si costruisce con artificiose e spettacolari trame con cui attribuirsi un’immagine sempre «simpatica» di sé. Su che cosa non possa causare oggi ciò che Ortega y Gasset chiamava «iperadattamento» del proprio agire agli usi e costumi dell’ambiente, troviamo un assaggio nell’amorale racconto Io e te di Nicolo Ammaniti.
Il giovane protagonista del racconto, quando entra per la prima volta nel liceo pubblico, vede i suoi compagni e gli sembra, confessa a sé stesso, di trovare «l’inferno in terra»; «Io non sono come loro. Io ho il sé grandioso».
Ben presto viene pesantemente preso in giro e giunge alla nuova autoconfessione: «Avevo sbagliato tutto. Ecco cosa dovevo fare. Imitare i più pericolosi. Mi sono messo le stesse cose che si mettevano gli altri […] i jeans con i buchi […]. Mi sono tolto la riga e mi sono fatto crescere i capelli […]. Camminavo come loro […]. Buttavo lo zaino a terra e lo prendevo a calci […], ridevo alle battute degli altri […]. Un paio di volte ho anche risposto male ai professori. E ho consegnato il compito in classe in bianco. Credevano che fossi uno di loro. Ma più inscenavo questa farsa più mi sentivo diverso […]. Da solo ero felice, con gli altri dovevo recitare […]. Avrei dovuto imitarli per tutto il resto della vita?».
Un buon antidoto a questo «iperadattamento» lo si può trovare nel libretto di Ugo Borghello pubblicato dalle Edizioni Ares, Liberi dal sarcasmo. Come prevenire le derive negative del gruppo di coetanei.
Specchiarsi in Dio
E imprescindibile, e allo stesso tempo consolante per un cristiano, che l’esame di coscienza non sia introspezione psicologica né semplice paragone con gli altri, ma uno specchiarci in Dio nostro Creatore e Padre, l’Eterno, l’Unico che solo, nel fluire di tutte le cose e di tutte le persone, sempre rimane: «Omnia transeunt, Tu autem permanebis».
Chi si specchia in Lui, anche se deve essere pronto a riconoscere i propri errori e insufficienze, non si imbatte mai nella tristezza dello scoraggiato, o peggio ancora nella paralisi del disperato. Qualunque altra forma di bilancio della propria vita si trasforma in un deludente e falso confronto con sé stessi o con gli altri che per forza di cose mai giunge ad alcuna conclusione operativa. «Ho progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29, 11).
Dio non ci viene incontro per punirci, per rinfacciare la nostra viltà, viene a salvarci, a riempirci di gioia e di pace. «La misericordia divina», ha detto il Papa nel suo ultimo viaggio in Africa (Benin), «non consiste solamente nella remissione dei nostri peccati; essa consiste anche nel fatto che Dio nostro Padre ci riconduce, talvolta non senza dolore, afflizione e timore da parte nostra, sulla via della verità e della luce, perché non vuole che ci perdiamo».
Bene esprimono i poeti tutto ciò. Ascoltiamo alcuni versi di Vittorio Sereni presi da Stella variabile: «Niente ha di spavento / la voce che chiama me / proprio me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: / è un breve risveglio di vento, / una pioggia fuggiasca. / Nel dire il mio nome non enumera / i miei torti, non mi rinfaccia il passato. / Con dolcezza (Vittorio, / Vittorio) mi disarma, arma, arma / contro me stesso me». L’intima voce della coscienza, «che chiama me / proprio me» a sempre amare e fare il bene e a fuggire il male (cfr Gaudium et spes, 16), mette in gioco al cospetto di Dio me («arma, arma / contro me stesso me»).
Ma ciò non ha nulla di terrificante: «È un breve risveglio di vento». La parola di Dio risuona nell’intimità del mio cuore e con «dolcezza mi disarma», come accade a Elia sul monte Oreb, è «il sussurro di una brezza leggera» (1 Re 19, 12) che mi incoraggia a iniziare un dialogo sincero che sia vera orazione. Si può dire che l’esame di coscienza è un momento di orazione a tu per tu con Dio nostro Padre, così come si può anche affermare che non c’è vera orazione senza che ci si soffermi a considerare se si ama e si compie, oggi, adesso, la sua Volontà. Sant’Agostino riassumeva in maniera stupenda la vita interiore del cristiano con le parole «noverim te, noverim me», «che io possa conoscerti, che io possa conoscermi».
La conoscenza di Dio che si acquisisce con la vita di orazione va accompagnata sempre da una miglior conoscenza di sé stessi che ci spinge a correggere e migliorare la nostra vita. A volte, l’esame di coscienza spinge a decisioni che esigono un cambiamento in qualche aspetto della propria vita che sta per sovvertire la giusta gerarchia di valori. Per esempio, la vita professionale sollecitata da una cultura narcisistica o da criteri esclusivamente economici può lentamente
La Noiville, che ha lasciato il suo lavoro di analista finanziaria in una multinazionale, racconta come si sentiva ripetere dal suo capo a ogni riunione, prima ancora di avere finito di leggere il suo rapporto: «Senti Florence, come possiamo aumentare i profitti?
Del resto ce ne sbattiamo». D’altra parte, l’esame di coscienza libera da scrupoli e da sensi di colpa perché, senza vergognarsi più di tanto di sé, si sa dare in vista della confessione sacramentale una connotazione morale a sentimenti e rimorsi che altrimenti, ricorda Bernanos nel romanzo L’impostura, ingrassano e nutrono come un cancro silenzioso la nostra esistenza riducendola in uno stato di disperazione che nessun pentimento può redimere.
Il cristiano coerente e verace è una persona vigilante che impara a conoscersi conoscendo sempre meglio il suo unico Modello e Giudice, Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Con la pratica dell’esame, egli purifica quotidianamente gli occhi dalla vanità e dalla superbia, consapevole che, sotto lo sguardo paterno di Dio, nelle cose piccole si attiva il progressivo miglioramento della sua vita di giorno in giorno, di anno in anno.