Pubblicato su Avvenire
di Maurizio Blondet
L’Ibm rischia di sborsare miliardi (di dollari) in indennizzi ai sopravvissuti dei lager. Fu la grande azienda americana, attraverso la sua controllata tedesca Dehomag, a fornire gli apparecchi elettromeccanici contabili a schede perforate (antenati dei computer) con cui il Terzo Reich poté gestire la complessa “selezione” degli ebrei in Germania, e il loro inoltro e smistamento nei campi della morte. L’automazione Ibm per la soluzione finale: così accusa Edwin Black, giornalista americano, nel suo “L’Ibm e l’Olocausto” (Rizzoli, pagine 606, lire 36.000).
L’opera, molto documentata, sta suscitando scandalo, e rischia di costare caro alla multinazionale dei computer. Ma perché l’Ibm dovrebbe essere la sola azienda americana a pagare per le sue complicità con Hitler? Se si cominciassero a sfogliare le pagine mai aperte della storia dei rapporti economici fra gli Usa e la Berlino degli anni ’30, emergerebbero più numerosi complici.
Basterà ricordare che la potenza militare hitleriana si fondò su tre enormi conglomerati industriali. La prima industria era la Aeg (elettricità), la quale altro non era che la filiale tedesca dell’americana General Electric. Seguiva la Ig-Farben (che controllava 380 aziende chimiche, le quali produssero per il Reich benzina sintetica ed esplosivi, gomma artificiale e munizioni), che aveva come socio dal 1927 la Standard Oil dei Rockefeller, e nel cui consiglio d’amministrazione sedevano – oltre ai fiduciari della Standard Edsel Ford e Walter Teagle – anche Paul Warburg, membro del consiglio della Federal Reserve (la banca centrale Usa) e consigliere del presidente Roosevelt. Il terzo conglomerato era la metallurgica Vereinigte Stalhwerke, fusione di sei colossi siderurgici tedeschi, fabbricante di carri armati e artiglieria: anche qui non senza coinvolgimenti americani.
Come mai? Dagli anni ’20 l’alta finanza di Wall Street aveva lanciato una sorta di piano Marshall ante litteram per risollevare l’economia della Germania uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale. La possente industria tedesca era intatta, ma paralizzata dalla penuria di capitali. Il Piano Daves & Young (così fu chiamato quel piccolo piano Marshall, dai nomi dei due congressisti che lo presentarono) iniettò denaro nelle imprese tedesche, perché il Paese tornasse a far profitti e perciò a pagare i suoi ingenti debiti di guerra.
Era anche un buon affare per i capitalisti statunitensi: e nel salvataggio interessato si gettarono infatti a capofitto le massime banche di New York, la Kuhn & Loeb e la Morgan, la Union Banking Corporation dei fratelli Harriman, la Chase Manhattan e la Equitable Trust. Seguirono a ruota gli industriali: dalla General Motors alla Standard, dalla Dow alla ITT all’anglo-olandese Shell.
Questi “poteri forti” Usa divennero soci delle imprese tedesche, e partecipi degli utili. E fin qui passi. Gli affari sono affari. Ma nel febbraio 1932 la Ig-Farben, con quegli americani nelle più alte delle sue poltrone, finanzia Hitler con 400 mila marchi, dandogli i mezzi per vincere le elezioni del 1933.
Henry Deterding, fiduciario della Shell, aveva già versato 4 milioni di guilders olandesi direttamente a Hitler: grazie a cui il futuro Führer comprò un giornale sportivo in declino, il Völskische Beobechter, e ne fece il quotidiano del Partito nazionalsocialista. William Dodd, allora ambasciatore Usa a Berlino, segnalava a Washington, sempre più allarmato, l’annodarsi di queste strane amicizie. “A tutt’oggi – scriveva il 19 ottobre 1936 – più di cento corporations americane hanno aperto qui filiali, e applicano accordi di cooperazione. [..] Standard Oil ha firmato contratti di 500 mila dollari annui come sovvenzioni, per la fabbricazione di gas sintetico ad uso militare”.
Laboratori comuni tedesco-americani (alcuni in Texas e nel New Jersey) crearono brevetti poi utilizzati nella guerra nazista. Né la guerra interruppe queste lucrose relazioni. Ancora nel 1940 la Bendix Aviation, controllata dalla banca Morgan, forniva alla Germania (attraverso la Siemens) gli apparati di pilotaggio automatico e i quadri di bordi degli aeroplani.
“Nel 1943 – ha scritto lo storico Anthony Sutton – il 100 % della gomma sintetica, del metanolo e dell’olio lubrificante; il 95% dei coloranti; il 90% del gas tossico e del nickel; l’85% degli esplosivi utilizzati dall’armata germanica venivano da fabbriche e brevetti creati dagli accordi tra Ig-Farben e Standard Oil, General Motors, Alcoa, Dow Chemicals, e fra Aeg e i suoi soci americani”.
Di questo collaborazionismo, i responsabili delle multinazionali e delle grandi banche Usa non sono stati mai chiamati a rispondere. Nel 1949 la famiglia Warburg si limitò a “smentire con sdegno” il suo coinvolgimento, largamente provato, negli affari coi nazisti. Tutto finì lì.