Incombe il pericolo di un liberismo al servizio soltanto dei poteri forti e non delle piccole e medie imprese e l’unica formula di «socialità» attuabile in questo scorcio di fine millennio non è quella «coatta» dello statalismo ma la solidarietà fondata sulla sussidiarietà, sull’autonomia e sulla partecipazione della società civile organizzata.
di Gianni Alemanno
Lafontaine, insieme a Jospin, è sempre stato considerato il più «sinistro» degli uomini politici della Sinistra europea, tutto preso da «Welfare», sindacati e intervento pubblico nell’economia, fino a spazientire pure il suo cancelliere Schroeder. Lafontaine, ancorato al vecchio sogno socialdemocratico di uno statalismo al servizio dei lavoratori e della giustizia sociale, rappresentava, fino al congresso del Pse di Milano, l’«alter ego dei liberal» come Tony Blair o lo stesso Clinton.
E il gran numero di formule astratte – coniugare flessibilità ed equità, concorrenza e protezione sociale, tutto e il contrario di tutto… – contenute nel documento congressuale, compreso l’attacco all’indipendenza della Banca centrale europea, aveva ricevuto l’applauso di Lafontaine. Che però martedì, davanti alla platea della «Sinistra neocapitalista», come l’ha definita Ostellino, ha iniziato a decantare le lodi del modello economico americano, associandosi per la prima volta al collega, e fino a ieri rivale ideologico, Blair, nell’esaltazione della ricetta clintoniana per combattere la disoccupazione.
Ovvero flessibilità estrema , assoluta mancanza di garanzie per i lavoratori, assenza di meccanismi pubblici di «Welfare» e – anche se gli ormai «post» socialisti sembrano averlo dimenticato – larghe fasce di disoccupati che percepiscono un reddito da lavoro non sufficiente da sollevarli dalle condizioni di indigenza.
Nessuno l’altro ieri a Milano ha contestato questa presa di posizione che, se da un lato fa chiarezza e ricongiunge sotto un unico verbo le due anime del postsocialismo europeo, dall’altra lo fa in ragione del cedimento totale della «vecchia guardia socialdemocratica» a un liberalismo neppure temperato. Saranno contenti Blair e Clinton della sterzata liberista di Lafontaine, ma non certo i lavoratori tedeschi e nemmeno i loro colleghi dei sindacati americani, schierati sul fronte della chiusura delle frontiere e della tutela dei minimi salariali, rispetto a cui il Partito democratico perde ogni giorno sempre più consensi.
Ora, chi denuncia da anni il matrimonio nefasto tra la Sinistra e certi «poteri forti» economici dovrà essere per forza preso sul serio. Sostituendo lo statalismo con forme più sottili di dirigismo, l’armata socialdemocratica europea fa vele verso gli Stati Uniti per andare a lezione di «deregulation», portandosi però dietro venti milioni di disoccupati e un mondo del lavoro che non accetterà di buon grado la conversione al «liberissimo mercato» anche della Spd tedesca, che rimane al centro delle critiche in patria anche per la politica di aperturismo nei confronti dell’immigrazione.
Più immigrati e meno garanzie per i lavoratori: con questo binomio la sinistra europea si avvicina programmaticamente a quei piccoli circoli liberisti americani, dei Milton Friedman, che salutano le masse di immigrati in nome dell’abbassamento del costo del lavoro e della maggiore produttività. Strano che, a Milano, nessuno si sia domandato se c’è qualcosa di sbagliato in un meccanismo di produzione della ricchezza che, se aumenta i profitti di pochio, continua a gettare sull’orlo del baratro la maggioranza dei lavoratori europei.
Non salvano l’anima «socialista» la richiesta della Bce di abbassare ulteriormente i tassi di interessi e il generico appello per un ancor più astratto «patto per l’occupazione» (idea, peraltro, vecchia di almeno due anni), che corre il rischio di rivelarsi ancora più velleitario del «patto sociale» di D’Alema che, finora, in Italia ha prodotto solo un abbassamento del Prodotto interno lordo, senza creare neanche un posto di lavoro.
Di nuova occupazione, a Milano gli «americani» del Pse ne hanno promesso in grande copia: venti milioni di posti di lavoro per curare le ferite di un’Europa che, finita la stagione del benessere, scopre giorno per giorno di diventare sempre più povera. Probabilmente, importare senza correttivi il modello americano qui da noi, oltre che urtare contro una «civiltà del lavoro» che non appartiene solo alla Sinistra comporterebbe solo l’istituzionalizzazione dei «lavoratori poveri» anche in Europa.
In realtà è abbastanza facile immaginare che per cavarsi da queste strettoie politiche e sociali, la Sinistra, soprattutto in Italia ricorrerà a una serie di trucchi consolidati. Il liberismo sarà coniugato da un dirigismo che non metterà in discussione i poteri «forti» che operano in Italia contro ogni corretta logica di libero mercato. Le richieste della piccola e media impresa di abbassamento della pressione fiscale saranno eluse e coperte da qualche intervento di assistenzialismo clientelare camuffato da «politiche per lo sviluppo».
La scure della «deregulation» si abbatterà soltanto sul ceto medio, colpendo le regole e le tutele del commercio, delle libere professioni e del lavoro autonomo organizzato. La perdita di tutela dei diritti dei lavoratori sarà «compensata» con un aumento del potere effettivo e delle prerogative economiche e delle burocrazie sindacali.
Spetta alla Destra smascherare l’imbroglio. Da un lato denunciando il pericolo di un liberismo al servizio soltanto dei poteri forti e non delle piccole e medie imprese, ma dall’altro rilanciando l’unica formula di «socialità» attuabile in questo scorcio di fine millennio. Non la «socialità coatta» dello statalismo ma la solidarietà fondata sulla sussidiarietà, sull’autonomia e sulla partecipazione della società civile organizzata.